Un film profetico. Bellissimo, sconvolgente e inatteso che ci fa dubitare di noi stessi.
Così Souleymane Cissé definisce Touki Bouki, primo lungometraggio di Djibril Diop Mambety, un film girato a Dakar nel 1973 che ancora risplende di un’attualità e di una lucidità sorprendente, soprattutto in tempi bui come quelli che stiamo vivendo.
Estatico, violento, divertente, sorprendente
lo definisce invece Martin Scorsese nella prefazione al libro Djibril Diop mambety o il viaggio della Iena, ricordando inoltre come il film sia uno dei primi restaurato grazie al The World Cinema Project.
Touki Bouki è un film amuleto che ci protegge dall’oblio, dalla retorica, dalla noia e dall’ipocrisia che sembra aver invaso un certo cinema borghese europeo sempre più ansioso di scaricarsi la coscienza producendo film sulla migrazione dall’Africa. Su tutti si veda l’acclamato ma alquanto ambiguo Io Capitano di Matteo Garrone.
Prodotto da Mambety, con un budget di 20 milioni di franchi CFA, girato in quattro settimane a Dakar e montato tra Roma e Parigi, Touki Bouki è l’evoluzione naturale dei due film precedenti, il corto Contras City del 1968 e il mediometraggio Badou Boy del 1970 già sorprendenti per stile, tono e contenuto.
All’origine di Touki Bouki c’è un forte desiderio di ribellione che Mambety trasforma in precise scelte cinematografiche. La storia si cristallizza intorno al rifiuto del sogno europeo che già all’epoca spingeva molti giovani senegalesi a lasciare il proprio paese. Un sogno malato, secondo le parole dello stesso regista, che si insinua come un virus nell’ identità collettiva causando un pericoloso processo di alienazione culturale.
Oui je l’ai écrit et je l’ai vécu dans un certain sens. Il est question dans ce film des Africains malades de l’Europe, des Africains qui considèrent que l’Europe est la porte de l’Afrique et qu’il faut y être allé pour revenir chez soi et gagner de la considération . Il est question en quelque sorte d’aller faire un stage de civilisation en Europe. Pour beaucoup la façon d’aller en Europe , c’est le voyage clandestin . Moi-même , j’ai entrepris un voyage clandestin sur un bateau qui m’a emmené jusqu’à Marseille : mais j’ai été pris et ramené jusqu’à Dakar. Le film c’est un peu l’histoire de beaucoup de jeunes, le dégoût aussi que m’inspire cette image qu’on acharne à donner de l’Europe à l’Afrique. Une image donnée par les Africains eux-mêmes en fait. Ceux qui, une fois rentrés, vous dépeignent l’Europe avec un tel sens de merveilleux, que vous n’avez qu’un envie: y aller et que vous commencez à vous sentir étranger dans votre propre pays . C’est contre cela, dont j’ai été moi-même victime que je me suis rebellé dans ce film . En dehors de la recherche artistique, j’ai voulu vraiment faire œuvre utile, essayer d’enlever les illusions de mes compatriotes qui ne sont pas parties et restent malades d’Europe. Moi j’en suis guéri.

Non meno importante è il desiderio di reinventare il cinema, che è atto di creazione artistica ma anche di resistenza contro l’ideologia colonialista alla base del sistema di produzione e distribuzione di un certo cinema occidentale.
Proprio come il mio eroe in Touki Bouki che ha rifiutato, mentre la nave era là, di andare in Europa, anche io ho rifiutato il meccanismo di visione sul quale si è basato il cinema occidentale per conquistare gli intelletti del pubblico senegalese.
Parole queste che racchiudono la poetica/politica che sottende a tutta l’opera del regista alla ricerca di una sintesi (cinematografica) che riproduca la complessità della cultura senegalese post indipendenza rimodellando in nuove forme le relazioni dialogiche tradizione/ modernità e cultura africana/cultura occidentale, temi generatori di gran parte del cinema africano.
La storia raccontata in Touki Bouki è apparentemente semplice oltre che tragicamente attuale.
Mory, motociclista solitario, e Anta, studentessa ribelle, si amano e sognano un futuro radioso a Parigi. Per racimolare i soldi necessari al viaggio attraversano Dakar escogitando truffe e furti in un continuo gioco di travestimenti e ironiche performance. Al momento di imbarcarsi Mory però fugge lasciando Anta partire sola.

Mambety spreme le potenzialità formali e stilistiche del linguaggio cinematografico distillando immagini potenti, ipnotiche, imperfette e lasciando allo spettatore il compito di ricostruire la storia e decifrarne la complessa stratificazione simbolica.
La storia di Anta e Mory si nutre di profonde radici che sondano una Dakar caotica e pregna di memoria e misteri. Dakar è il luogo della modernità, del potere e della ricchezza. Qui il capitalismo ha eretto i suoi templi e imposto i suoi riti. Il mattatoio che sacrifica insieme agli zebù il ritmo lento della pastorizia. Il porto con i suoi infiniti container e le navi che trasportano avanti e indietro cooperanti e neo colonialisti. L’università che sforna studenti freschi delle lotte del ‘68 eppure già conformisti e borghesi, così come la maggior parte della classe dirigente post indipendenza.
Dakar è il luogo delle illusioni. Lambita dall’Oceano, che qui appare in tutta la sua potenza di eros e thanatos, è l’osservatorio perfetto per sognare l’evasione.
Dakar è la città doppia, che già contiene in sé la città sognata. Agognato Eldorado incarnato dalla voce di Josephine Baker (Paris Paris Paris, c’est sur la Terre un coin de paradis) e dalla sirena della nave Ancerville, Parigi appare in filigrana in tutto il film mentre già nella locandina una Torre Eiffel a testa in giù fa esplodere l’amara ironia di un sogno capovolto.
Circondata da una brousse punteggiata da enormi baobab, Dakar è anche uno spazio liminale, ibrido che evoca il passato pastorale ma anche un presente dove gli amuleti possono cambiare un destino. E, con un beffardo clin d’œil al personaggio di Tarzan, Mambety trova spazio anche per un “bianco selvaggio” che vive sugli alberi e che si brucerà abbagliato (anche lui) dalla modernità.
Nel loro girovagare Mory e Anta giocano con lo spazio e le identità, rompendo confini reali e immaginari e tracciando la mappa anarchica e infuocata di un viaggio iniziatico che si concluderà con una separazione.
Mory cavalca impavido una moto decorata con corna di zebù e con la doppia croce della maschera Kanaga dei Dogon. Di lui intuiamo un passato di bambino-pastore e siamo testimoni di un viaggio iniziatico che lo riporterà alle origini permettendogli, forse, di acquisire maggior dominio sul mondo. Lo vediamo percorrere le strade di Dakar mentre un continuo flusso di coscienza visivo e sonoro ci riporta l’immagine caleidoscopica e vorticosa del suo intimo e frammentato percorso mistico.
Un percorso che contiene il sacrificio, come estremo atto rituale.
Accanto a lui Anta incarna la nuova donna post Indipendenza, perfetta icona di una generazione che riesce a contaminare il sacro con il profano, la tradizione con la modernità, il maschile con il femminile e che rimane ferma nel suo intento di libertà anche a costo di perdere l’amore.

Proiettato in anteprima al celebre Théâtre Sorano di Dakar, Touki Bouki viene fischiato e duramente criticato da pubblico e critica, completamente impreparati ad un film estremamente sperimentale, provocatorio e politico.
Premiato a Cannes dalla Quinzaine des Réalisateurs e al Festival Internazionale del Film di Mosca è oggi considerato capolavoro del modernismo cinematografico post coloniale e imprescindibile riferimento per molti registi africani (ma non solo) alla ricerca di un linguaggio cinematografico innovativo.
Da subito i critici parlano di un film influenzato dalla Nouvelle Vague e dal Cinema Novo. E’ certo un cinema avanguardistico ma è importante non dimenticarne l’aspetto militante che critica ferocemente non solo il colonialismo che ha importato violentemente sistemi alieni quali l’urbanizzazione, l’industrializzazione, il capitalismo e il cattolicesimo, ma anche l’amaro tradimento dell’Indipendenza ad opera di un Presidente Poeta che ben ha saputo dissimulare un’anima troppo filofrancese e una tendenza al pugno di ferro e alla censura.
Touki Bouki è un film profondamente anticapitalista così come lo sarà, vent’anni più tardi, Hyènes.

Citato impropriamente nei manifesti promozionali del tour OTR II di Beyoncé e omaggiato da Mati Diop nell’affascinante
Milles Soleils, Touki Bouki è un film punk e psichedelico, una cometa cinematografica che continua a rilasciare scintille di cinema.
Per approfondire:
Djibril Diop Mambety o il viaggio della iena con Simona Cella Dippia Visione Podcast Ep. 37
Simona Cella
Scriptwriter, Producer, Film Critic