Hyènes, un western tropicale

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Ramatou e le amazzoni

Presentato in concorso ufficiale al Festival di Cannes del 1992, Hyènes segna il tormentato ritorno di Mambety al cinema.Se Touki Bouki era nato dall’urgenza di rivoluzionare il cinema attraverso il racconto del desiderio dell’Altrove di un’intera generazione, Hyènes nasce dall’ossessione di ritrovare Anta, «la ragazza che aveva avuto il coraggio di lasciare l’Africa e attraversare l’Atlantico da sola».

Fantasticando sul possibile destino della giovane donna, Mambety costruisce un nuovo personaggio partendo dalla sovrapposizione di due potenti figure femminili. La prima è una prostituta di Dakar, soprannominata da tutti Linguere Ramatou, che un giorno sparisce misteriosamente così come era apparsa. Mambety ne inventa un passato leggendario immaginandola, ancora bambina, nel suo villaggio, dove una notte gli abitanti danno fuoco alla capanna della sua famiglia, sospettata di stregoneria. I resti della piccola Linguere non vengono ritrovati accanto a quelli del resto della famiglia e da quel momento l’intero villaggio vive nel terrore del ritorno di Linguere. Il personaggio rimane per anni “ibernato” nella fantasia del regista fino a quando, durante la visione del film di Bernard Wicki La Rancune (1964), tratto da La visita della vecchia Signora di Friedrich Dürrenmatt, l’immagine di Ingrid Bergmann, che nel film interpreta Claire Zachanassian, lo riporta alla memoria del regista. Mambety legge il testo del drammaturgo svizzero e decide di realizzarne una trasposizione cinematografica.

Nasce così Hyenes, storia del ritorno a Colobane di Linguere Ramatou, diventata miliardaria e disposta a far piovere una pioggia d’oro sulla cittadina a condizione che Draman Drameh, l’uomo che l’ha tradita trent’anni prima, sia condannato a morte. Colobane, metafora urbana che assomma bancarotta, disastro economico e disperazione è una distopica sovrapposizione tra la cittadina di Güllen descritta da Dürrenmatt e un’anonima cittadina del Sahel. La scenografia è quella di un western. A Colobane c’è una stazione, una locanda, l’ emporio/Saloon, il municipio, la stazione di polizia, la chiesa alle quali si aggiungono due spazi che riportano al contesto africano: la Tana delle Iene e il Cimitero degli Elefanti. Delimitano i suoi confini il mare e lo spazio illimitato, giallo ocra, del deserto e della savana. Uno spazio attraversato da gendarmi che impugnano fucili in legno e scortano a cavallo l’arrivo di camion carichi di merce di lusso. E’ in questa polverosa cittadina che, come in una tragedia greca, si affrontano Linguere Ramatou, eroina dalle valenze mitiche e simboliche, e Draman Drameh uomo solo davanti al suo destino.

Linguere Ramatou, interpretata dall’attrice non professionista Ami Diakhate è un cyborg con protesi d’oro che porta sul proprio corpo i segni di un crudele esilio. Come spiega il regista, Linguere in lingua wolof significa Regina Unica mentre Ramatou è l’ uccello rosso di una leggenda dell’Egitto nero faraonico. Un uccello sacro che non si uccide impunemente: è, infatti, l’anima dei morti. Ramatou giunge a Colobane accompagnata da tre amazzoni, una guardia del corpo giapponese, l’ex giudice di Colobane e due falsi testimoni, da lei castrati e ridotti a schiavi eunuchi. Lei stessa si definisce attraverso due immagini, il denaro e l’inferno e, pur affermando che il presente le appartiene, i suoi continui riferimenti al passato la legano al concetto di memoria. E’ una Dea della vendetta che rieccheggia dalla Medea di Pasolini con i suoi sacrifici, il dolore per l’amore tradito e il sogno premonitore della vendetta. Ma è, sopratutto, l’incarnazione della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, perchè «si presenta con molti miliardi e chiede ad un popolo poverissimo di fare un sacrificio».

Draman Drameh, interpretato dall’attore non professionista Mansour Diouf, è un eroe solitario. Inizialmente incaricato di salvare Colobane, nel secondo atto è un uomo in fuga, trasformato suo malgrado in capro espiatorio. Solo alla fine si fa eroe tragico, scegliendo, lucido testimone della disintegrazione morale della società, di espiare una colpa lontana per salvare lapropria città. E’ attraverso Draman che possiamo intravedere il desiderio di continuare Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann, «il western dell’infanzia», il film che ha fatto nascere in Mambety il desiderio di fare cinema. Dramma di un uomo solo di fronte alla solitudine, la paura e la morte, «studio della paura sullo sfondo della viltà di una città», Mezzogiorno di fuoco sembra raccontare la storia di Hyenes dal punto di vista di Draman Drameh. Draman che sa di dover morire e la cui lucida consapovelezza ritroveremo anni dopo nel personaggio di Satché protagonista di Tey (2012) di Alain Gomis.

Il confronto tra Linguere e Draman avviene con la mediazione degli abitanti di Colobane che, attratti dal miraggio del denaro, si trasformeranno in un’orda affamata che «mangerà» Draman sacrificandolo all’altare del Dio denaro. E’ attraverso la trasformazione degli abitanti di Colobane che Mambety offre un’analisi spietata dell’Africa piegata al neocolonialismo.

Hyenes sovrappone il western ad un testo teatrale (che già contiene in sè elementi del teatro greco) e, come nel più classico dei generi, il Legal Drama, usa il rituale del processo come espediente narrativo centrale e fortemente simbolico. Abderrahmane Sissako, nel 2006, con Bamako , racconterà di un altro tribunale informale, all’interno del quale rappresentanti della società civile africana processano la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.

Hyènes è un western tropicale postcoloniale, un film distopico che restituisce una lucida e amara riflessione sull’esilio e la memoria, sul perdono e la vendetta, sul potere del denaro e sulla perdità dell’identità, sulla solitudine.

Un altro film viene alla mente. E’ Guelwaar di Sembene Ousmane del 1993. Storia dell’omicidio di un importante difensore dell’Africa incorrotta e libera. Per un errore amministrativo, il suo cadavere, pur essendo egli cattolico, è stato sepolto nel cimitero musulmano. La disputa che scoppia tra i due gruppi sociali e che sottolinea l’importanza ancora considerevole del rito, consente al regista di denunciare un’Africa che venera i doni dei benefattori stranieri col rischio di essere portata ad uno stato di mendicante. I due maestri del cinema senegalese, si ritrovano cosi, uniti in una speculare idea del cinema. Cinema di poesia. Cinema politico.

Originally published in L'Harmattan Italia

    Simona Cella

Simona Cella

Scriptwriter, Producer, Film Critic